Abbandono di animali (art. 727 c.p.).
Chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività è punito con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda da 1.000 a 10.000 euro.
Alla stessa pena soggiace chiunque detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze.
Le condotte di “abbandono” di animali e di “detenzione degli stessi in condizioni incompatibili con la loro natura” acquistano per la prima volta penale rilievo nell’ordinamento italiano in forza della l. 22-11-1993, n. 473. Alla luce di tale novella, infatti, il testo dell’originaria contravvenzione di maltrattamento di animali, prevista all’art. 727 del codice Rocco, venne riformulata e ampliata conferendo rilevanza penale alle anzidette inedite condotte.
L’art. 727 c.p., così come modificato nel 1993, stabiliva infatti: «Chiunque incrudelisce verso animali senza necessità o li sottopone a strazio o sevizie o a comportamenti e fatiche
insopportabili per le loro caratteristiche, ovvero li adopera in giuochi, spettacoli o lavori insostenibili per la loro natura, valutata secondo le loro caratteristiche anche etologiche, o li detiene in condizioni incompatibili con la loro natura o abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività é punito con l’ammenda da lire due milioni a lire dieci milioni».
Il legislatore è poi nuovamente intervenuto, con la l. n. 189/2004, apportando significative modifiche in tale materia. La riforma del 2004 ha infatti inserito nel codice penale il nuovo Titolo IX bis – Dei delitti contro il sentimento per gli animali – all’interno del quale è trasmigrato il vecchio reato di “maltrattamento di animali” – ora dunque previsto come delitto – e ha altresì modificato nuovamente il testo della contravvenzione di cui all’art. 727 c.p. che attualmente, sotto l’inscriptio “Abbandono di animali”, sanziona con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda da 1.000 euro a 10.000 euro le sole condotte di chi abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività, e di chi detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, purché tali condizioni siano produttive di gravi sofferenze.
Come anticipato, prima della riforma n. 189/2004, l’art. 727 c.p., sebbene sotto la diversa inscriptio di “maltrattamento di animali”, puniva, tra le altre, condotte del tutto sovrapponibili a quelle di abbandono e di detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura.
Le finalità della disposizione citata sono tradizionalmente state considerate, da un lato, la tutela di un bene giuridico identificabile con il sentimento umano di pietà nei confronti degli animali, dall’altro, in una prospettiva più marcatamente pedagogico - educativa, quella di preservare e promuovere l’educazione civile potenzialmente compromessa da manifestazioni brutali nei confronti di altri esseri viventi.
Numerose pronunce giurisprudenziali, in particolare tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, hanno tuttavia prospettato un’interpretazione evolutiva della suddetta disposizione, individuando quale ratio di tutela della stessa, non tanto la protezione del sentimento umano per gli animali, bensì quella degli animali in sé in quanto esseri senzienti in grado di sperimentare le esperienze della sofferenza e del dolore, e per questo meritevoli di tutela.
La collocazione sistematica dell’attuale reato di “Abbandono di animali”, contemplato tra le “Contravvenzioni concernenti la polizia dei costumi”, nonché la denominazione del nuovo Titolo IX bis – “Dei delitti contro il sentimento per gli animali” – inserito nel codice penale in forza della riforma n. 189/2004, e più ampiamente dedicato alla disciplina delle fattispecie perpetrabili a danno degli animali, fanno tuttavia, anche attualmente, ritenere che il bene giuridico tutelato dall’art. 727 c.p. sia il sentimento umano per gli animali.
Come già osservato, più in generale, in relazione al bene giuridico posto a tutela del Titolo IX-bis c.p., anche in questo caso, si può peraltro evidenziare che, in forza dell’evoluzione dei costumi e di un’affinata sensibilità sociale in merito alla tutela delle altre specie viventi, si sia affiancato al più tradizionale bene giuridico “sentimento per gli animali” intriso di sfumature emotivo - sentimentalistiche e pedagogiche anche un nuovo sentimento nel quale la partecipazione emotiva alle sorti degli animali pare doversi, più che in passato, all’effettivo riconoscimento di creature complesse, dotate di dignità in quanto esseri viventi e governate da leggi biologiche, seppur peculiari, spesso simili alle nostre.
Oggetto materiale del reato è con ogni evidenza l’animale.
Tale nozione non pare, alla luce dell’art. 727 c.p., destare le medesime perplessità sorte in relazione al concetto di “animale” contemplato dal reato di “maltrattamento di animali” (art. 727 c.p. ante riforma 189/2004), prima, e dalle fattispecie previste agli artt. 544 bis ss. c.p., poi. Infatti la condotta di “abbandono di animali domestici o che abbiano acquisito abitudini alla cattività” e quella di “detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze”, presuppongono, l’una, l’interazione tra l’uomo e una creatura in qualche modo capace di instaurare con questi un rapporto di abitudine e di dipendenza, l’altra, la necessità che tale essere sia in grado di manifestare la propria sofferenza, provocata dalle modalità di detenzione, in maniera quantomeno percepibile e rilevabile dall’uomo stesso.
In entrambi i casi, pertanto, pare ancor più immediato che in relazione agli artt. 544-bis e ss. presumere dovrà trattarsi di creature sufficientemente complesse e in grado di sviluppare con l’uomo un qualche tipo di relazione, con buona esclusione di esseri quali ragni, zanzare, lombrichi, ecc.
Sebbene l’art. 727 c.p. identifichi il soggetto attivo del reato in “chiunque”, pare tuttavia di trovarsi al cospetto di una fattispecie tipica commissibile solo dal proprietario o dal detentore dell’animale, essendo tale qualifica soggettiva sostanzialmente implicita nella descrizione delle condotte incriminate.
Laddove si parla di abbandonare un animale domestico o che abbia acquisito abitudini alla cattività o di detenere lo stesso in condizioni incompatibili con la sua natura infatti, si presuppone un rapporto particolare, privilegiato, tra soggetto agente ed animale. Quel peculiare rapporto in forza del quale l’animale, essendo addomesticato, abituato alla cattività o, semplicemente, rinchiuso in un luogo limitato, e non potendo quindi affinare o esprimere istinti e difese indotte negli esemplari liberi dalla normale lotta per la sopravvivenza, perde la capacità di provvedere a se stesso divenendo dipendente dall’uomo.
Anche in giurisprudenza si è avuto modo di precisare, seppur con più peculiare riferimento alla condotta di cui al 2° comma dell’art. 727 c.p., che il reato di cui si tratta potrà integrarsi non solo da parte del proprietario dell’animale, ma anche da chi detenga lo stesso occasionalmente.
Sotto l’unitaria e laconica inscriptio di “Abbandono di animali” l’art. 727 tratteggia, in realtà, due distinte fattispecie, per le quali si prevede tuttavia un medesimo trattamento sanzionatorio.
La prima, contemplata al 1° comma, consiste nell’abbandonare animali dopo che abbiano acquisito abitudini alla cattività; la seconda, prevista al successivo 2° comma, consiste invece nel detenere animali in condizioni incompatibili cloro natura, condizioni che devono essere produttive di gravi sofferenze.
Il 1° comma dell’art. 727 c.p. punisce, dunque, la condotta di chi abbandoni animali domestici o che abbiano acquisito abitudini alla cattività.
Oggetto della condotta, pertanto, non potranno essere tutti gli animali ma, come espressamente evidenziato dal dettato della disposizione, soltanto quelli domestici, e cioè quelli abituati a vivere, per motivi di affezione o di utilità, con l’uomo e nei suoi ambienti, nonché quelli che abbiano acquisito abitudini alla cattività, intendendosi per questi ultimi quelli che, seppur selvatici, siano tuttavia vissuti in ambienti protetti, nei quali non hanno potuto affinare quegli istinti, quelle difese e quelle cautele indotte negli esemplari liberi dalla normale lotta per la sopravvivenza e che pertanto, se lasciati liberi, non siano presumibilmente in grado di provvedere in modo compiuto a se stessi.
Si ritiene che debba intendersi per “abbandono” l’interruzione della relazione di cura e custodia instaurata con l’animale precedentemente detenuto, attuata trasferendolo o lasciandolo in un luogo ove non riceverà alcuna assistenza. Non costituisce invece “abbandono” la consegna di un animale (ad esempio un cane) alle strutture comunali di ricovero, né il mancato ritiro dello stesso da dette strutture, poiché in tali luoghi gli animali non possono essere soppressi né destinati alla sperimentazione, e ai medesimi, nell’attesa della loro cessione a privati, vengono assicurate le necessarie prestazioni di cura e custodia.
Non integra inoltre la condotta di “abbandono” di cui al 1° comma dell’art. 727 c.p. il comportamento di chi, continuando a detenere un animale, non si prenda tuttavia cura di questo, ad esempio omettendo di fornire allo stesso acqua e cibo in modo continuativo; tale contegno costituirà, invece, laddove si sostanzi in una detenzione incompatibile con la natura dell’animale che causi a questi gravi sofferenze, ipotesi contravvenzionale rilevante ai sensi del 2° comma del medesimo art. 727 c.p.
È importante sottolineare che la fattispecie di “abbandono in senso stretto”, prevista al 1° comma, non richiede, al contrario di quella contemplata al 2° comma, la causazione all’animale di “gravi sofferenze”, punendo il mero fatto dell’abbandono indipendentemente dal verificarsi di eventi ulteriori da esso derivanti e, in ogni caso, dalla concreta causazione di patimenti anche solo psichici.