La Corte Costituzionale nel sistema Costituzionale

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(Pavia, 29 marzo 2011)
La Corte costituzionale nel nostro sistema costituzionale
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Ugo De Siervo - presidente della Corte

1. - La doverosa attenzione verso l’ormai lunga storia del nostro Stato unitario, può agevolare la spiegazione del motivo per cui nella nostra Costituzione sia stata prevista la Corte costituzionale, dotandola di tanti importanti poteri.
Nel marzo 1943, in piena clandestinità, viene diffuso un breve documento politico nel quale si comincia a configurare quelle che potranno essere le caratteristiche fondamentali delle future istituzioni democratiche (mi riferisco alle “Linee di ricostruzione”, redatto da Alcide De Gasperi in collaborazione con Giuseppe Spataro e Giovanni Gronchi): l’inizio è particolarmente incisivo, poiché di afferma che “la ventennale crisi politica ha investito le basi costituzionali dello Stato, rendendo necessaria la ricostruzione con nuove leggi fondamentali. Il popolo italiano sarà chiamato a deliberarle ed a sanzionarle”. Subito dopo, si espongono in estrema sintesi le caratteristiche della futura democrazia e, in particolare, si scrive: “Il nuovo Stato democratico sarà ricostruito in regime rappresentativo sulla base del suffragio universale, espressione dei diritti politici del cittadino. Nella netta distinzione dei poteri, il primato spetterà al Parlamento che solo potrà disporre della guerra e della pace. Saranno create garanzie per la stabilità del governo, per la forza dell’esecutivo e per l’effettiva indipendenza del potere giudiziario. Una Corte suprema di garanzia tutelerà lo spirito e la lettera della costituzione, difendendola dagli abusi del potere e da quelli di partiti che avessero in programma il ricorso alla forza”.
Non può non colpire che in un contesto tanto tragico e difficile, ci si riferisca anche ad una corte costituzionale, malgrado che in Italia non si fosse mai avuta esperienza di organi e procedure riferibili alla giustizia costituzionale, né -tanto meno- qualcosa del genere fosse stato previsto nello Statuto albertino, ancora formalmente vigente all’inizio degli anni quaranta, seppur tanto modificato da leggi e prassi del periodo liberale e poi radicalmente stravolto dal regime fascista.

2. - Come ben noto, le istituzioni del Regno d’Italia, proclamato nel 1861, sono derivate ed hanno tratto largamente la loro legittimazione e le loro caratteristiche fondamentali dall’ordinamento del Regno di Sardegna, che era uno Stato liberale moderato, dotato di una forma di governo tipica della “monarchia limitata” e disciplinato nelle sue linee fondamentali dallo Statuto albertino del 1848. Di conseguenza, questo Statuto è divenuto nel 1861 la carta costituzionale dell’Italia unita, a cui è succeduta solo la Costituzione repubblicana, entrata in vigore esattamente un secolo dopo.
Lo Statuto albertino era, al pari di varie altre Carte europee del primo liberalismo, una Costituzione sicuramente molto innovativa rispetto ai precedenti regimi delle monarchie assolute, ma al tempo stesso non poco moderata e relativamente poco garantista: sul primo versante, si pensi, ad esempio, cosa significava di rivoluzionario rispetto alla fase precedente il principio della tendenziale eguaglianza fra tutti i cittadini, la loro eguale sottoposizione alla legge, l’affermazione delle libertà politiche e civili (malgrado la loro succinta elencazione), il riconoscimento della fine della monarchia assoluta ed, anzi, la previsione della necessaria presenza, al vertice dello Stato, di un organo rappresentativo dei cittadini elettori, come la Camera dei deputati.
Sull’altro versante, però, non si poteva certo sottovalutare che la Monarchia appariva ancora fortemente dominante nel sistema dei poteri, a cominciare dal Governo, e tale da condizionare profondamente il funzionamento dello stesso Parlamento, che le libertà affermate erano in realtà garantite solo in modo alquanto generico e che comunque la loro configurazione era affidata alla discrezionalità del Parlamento e del Governo, che la stessa partecipazione democratica alla vita politica di conseguenza poteva essere ridotta a limitatissime fasce sociali (si pensi che rispetto all’unica camera elettiva del Parlamento gli aventi diritto al voto sono stati fino al 1880 pari a circa il 2% della popolazione, percentuale che sale poi a circa il 7% fino al 1912).
Ma poi, al di sopra di tutto ciò stavano tutte le notissime drastiche disparità culturali, sociali, economiche dei cittadini, la grandissima maggioranza dei quali era sostanzialmente del tutto esclusa dai circuiti decisionali; queste diseguaglianze costituiranno –come ben noto- le premesse per la nascita della questione prima sociale e poi politica, con il conseguente faticoso sorgere dei movimenti sindacali e dei cosiddetti partiti popolari.
Tutto ciò era reso possibile sul piano istituzionale anche da una caratteristica strutturale dello Statuto albertino, che era –come la maggior parte delle altre Costituzioni del periodo- una Costituzione flessibile e cioè una Costituzione il primato delle cui disposizioni era fondamentalmente affidato alla fedeltà ad esso delle istituzioni e delle forze sociali dominanti, nonché alla reazione della pubblica opinione più consapevole, mentre nulla si prevedeva relativamente a poteri di controllo e di veto di appositi organi rispetto alle eventuali violazione dello Statuto.
Si badi bene che la flessibilità delle costituzioni di questa fase storica non era il frutto di una sorta di sottovalutazione o di dimenticanza, quanto –in un contesto politico e sociale ancora molto arretrato, nel quale le nuove élites borghesi erano in una fase di rapida affermazione, mentre gli antichi poteri avevano appena iniziato a ridurre i propri precedenti privilegi- la strumentazione più adatta per chi sperava di poter in tal modo progressivamente conseguire risultati più soddisfacenti di quelli ottenuti con le prime Carte liberali.
Da questo punto di vista è significativo, ad esempio, notare che nei primi decenni di applicazione dello Statuto albertino, prima nel Regno sardo e poi nel Regno d’ Italia, in realtà si consegue, senza bisogno di alcuna modifica costituzionale, un fortissimo spostamento di potere politico a favore delle classi politiche egemoni nel Parlamento rispetto ai poteri formalmente attribuiti alla Monarchia (basti pensare al Governo, che da “Governo del Re” diviene ormai espressivo della maggioranza politica operante alla Camera, o allo spostamento di tutta una serie di fondamentali poteri dalla Monarchia al Governo ed in parte al Parlamento).
Al tempo stesso, però, la misura dei diritti e, più in generale, la effettività del principio di eguaglianza dipendono senza limite alcuno dalla volontà dei limitatissimi ceti sociali rappresentati nel Parlamento e nel Governo, senza che neppure si pensi seriamente a politiche sociali o di sviluppo culturale delle enormi masse escluse dal circuito decisionale (solo per riferirsi alla pubblica istruzione, si ricordi che in un contesto caratterizzato nel 1871 da un analfabetismo pari, a livello nazionale, al 69 % della popolazione, la legislazione sull’obbligo scolastico comincia ad intervenire proprio negli anni dell’unificazione nazionale, ma riguarda in origine le due sole classi iniziali dell’istruzione elementare, con una larghissima evasione dall’obbligo).
Ma poi questi anni sono quelli decisivi nella costruzione del modello di Stato e di amministrazione pubblica, dal momento che occorre evidentemente edificare un nuovo ordinamento dopo la caduta dei tanti Stati pre-unitari : ed anche qui – in un contesto che sicuramente era di estrema difficoltà- prevale quasi naturalmente, in classi politiche molto elitarie ed anche fortemente preoccupate di non lasciare spazi a particolarismi territoriali, la linea di adottare un modello organizzativo molto fortemente accentrato e rigidamente uniforme: solo con un modello di questo tipo ci si poteva illudere di procedere rapidamente ad una unificazione sostanziale del paese dopo la fulminea fase delle annessioni degli Stati pre-unitari, superando in radice tutte le difficoltà poste dalle tante enormi diversità culturali, linguistiche, economiche e sociali ereditate.
Inutile dire che sono la legge del Parlamento od il regolamento del Governo che definiscono in assoluta discrezionalità l’assetto ed i poteri dei diversi organi pubblici, sia dipendenti dal governo che (raramente) espressivi delle classi dirigenti delle diverse comunità locali. Ma anche qui forse qualche esempio, per quanto limitato, dice più di tanti discorsi: in tema di autonomie locali, non solo il modello federale è fin dall’inizio escluso, ma si respinge pure il modello di Regioni dotate di limitati poteri amministrativi e perfino la proposta che Comuni e Province siano dotati di forti autonomie, in quanto governati dai rappresentanti locali (comunque sempre eletti da ristretti ceti sociali: gli elettori nelle amministrazioni locali saranno il 3,9% nel 1865, per salire a fine secolo al 9% ). Come ben noto, le Province saranno guidate dai Prefetti fino al 1888 ed i Comuni avranno Sindaci elettivi solo alla fine del secolo XIX, mentre comunque le loro sfere di autonomia resteranno estremamente ridotte e comunque sempre subordinate ai fortissimi poteri governativi di vigilanza e controllo.
In questo quadro, la stessa autonomia delle magistrature era molto ridotta ed i loro poteri assai limitati e comunque in balia della mera volontà del legislatore.
Qui si coglie bene il nodo strutturale che caratterizza tutta l’esperienza democratica che pur faticosamente si sviluppa sotto lo Statuto albertino fino all’avvento del fascismo: esiste uno Stato di diritto con caratteristiche liberali, ma l’effettività di queste caratteristiche dipende dalla volontà e dalla coerenza delle classi politiche di volta in volta egemoni, certo ormai alla fine del secolo diciannovesimo –dopo mezzo secolo di vita unitaria- più vincolate che nel passato da una società divenuta più esigente e consapevole, a causa delle significative trasformazioni politiche, culturali ed economiche intervenute. Ma poi, proprio la progressiva trasformazione della base sociale ormai attivamente operante nello Stato produce inevitabilmente una pericolosa contrapposizione nella vita istituzionale di visioni sociali e di concezioni ideali, con il conseguente rischio di scontri irrimediabili e devastanti. E ciò mentre la larghissima modificabilità dello stesso assetto degli organi fondamentali dello Stato legittimava quasi ogni possibilità di evoluzione, da antistorici tentativi di ritorno alla lettera dello Statuto all’evoluzione del sistema verso uno dei tanti modelli che erano ormai sperimentati da alcune più moderne liberaldemocrazie europee, ormai integralmente democratizzate.

3. - Su tutto ciò in Italia piomba la prima guerra mondiale, che se da una parte contribuisce definitivamente a legittimare a livello popolare l’unità nazionale, dall’altra mette bene in evidenza una crescente crisi istituzionale (un improvviso recupero di poteri da parte della Monarchia, la riduzione e lo stravolgimento dei poteri parlamentari, il peso anomalo dei vertici militari). Ma è il dopoguerra che denota plasticamente l’insufficienza evidente della vecchia costituzione a reggere un paese tanto profondamente mutato: da una parte, l’ammissione al voto dell’intero elettorato maschile produce una vera e propria rivoluzione parlamentare, con la sostanziale marginalizzazione del sistema politico in precedenza egemone; dall’altro le proposte di forte mutamento istituzionale, si confrontano tra loro nel vuoto di un quadro condiviso di riferimento: si pensi alle proposte in tema di riforma delle burocrazie e degli strumenti di intervento nell’economia, di regionalismo, di ruolo dei sindacati, di completamento e di miglioramento del sistema delle giurisdizioni.
Anche l’avvento e l’affermazione del fascismo confermano la sostanziale impotenza, se non inesistenza, della Costituzione del 1848, che, per quanto deformata e tante volte disapplicata, pur tuttavia ancora affermava principi e valori di matrice liberale, invece ora del tutto negati e concretamente contraddetti dal nuovo regime. Il fatto stesso che il lungo regime fascista, pur avendo radicalmente modificato legislazioni ed assetto istituzionale, non abbia mai posto ufficialmente il problema di adottare una nuova Costituzione indica -al di là dei suoi tatticismi nei riguardi della Monarchia- che la totale flessibilità dello Statuto permetteva in realtà ogni tipo di modificazione, anche la più estranea alla lettera ed allo spirito del testo costituzionale.

4. - Se ciò avviene nel nostro Paese, in quegli stessi anni in tanti altri paesi europei le grandi trasformazioni sociali e politiche collegate alla partecipazione ai circuiti decisionali dell’intera popolazione, la necessitata presenza di grandi apparati amministrativi, gli stessi abusi posti in essere da maggioranze contingenti o da tendenze “bonapartiste”, spingono a sperimentare trasformazioni più o meno profonde di tutta una serie di Costituzioni, pur riconducibili alla tradizione liberale (ormai anche sfidata dalla rivoluzione sovietica e dalle forti tendenze illiberali, se non totalitarie, di destra), tanto da parlarsi di vere e proprie “nuove tendenze del costituzionalismo europeo”. Anzitutto cambiano in profondo gli stessi testi costituzionali, ormai assai più analitici e razionalizzanti dei testi precedenti, con particolare riferimento ai reciproci rapporti fra gli organi supremi delle diverse forme di governo, alla riconsiderazione delle tutele dei diritti, ora decisamente rafforzati ed anche estesi all’ambito sociale, nonché alla previsione di forti articolazioni territoriali sul modello federale o su quello regionale.
Il nuovo costituzionalismo democratico europeo si riferisce ormai ad uno Stato rappresentativo dell’intera realtà politica e sociale, che cerca di garantire effettivamente i valori della tradizione liberale arricchendoli però con il riconoscimento di diritti sociali, che configura che prevede e disciplina forti forme di autonomie territoriali, che legittima e valorizza nuovi soggetti collettivi. Quando poi si prende consapevolezza dei nuovi pericoli per le libertà individuali prodotti da tante grandi trasformazioni sociali e tecniche, nonché soprattutto dei drammi prodotti dai totalitarismi, la tutela effettiva dei diritti umani diviene oggetto prioritario da garantire nel concreto funzionamento del nuovo Stato.
Ma tutto ciò inevitabilmente impone che a queste nuove disposizioni costituzionali sia garantito, in modo più o meno coerente ed organico, un vero e proprio primato giuridico rispetto alle pur legittime scelte dei soggetti momentaneamente dominanti nelle istituzioni rappresentative. Come l’antico principio di legalità ha caratterizzato lo Stato di diritto e posto le premesse per il principio di eguaglianza, ora il primato delle disposizioni costituzionali sulla volontà di ogni organo pubblico (anche il più rappresentativo), garantendo concretamente il rispetto delle “regole del gioco” da parte di tutti, permette anche ai soggetti individuali e collettivi estranei alle forze momentaneamente egemoni di sentirsi cittadini del medesimo Stato, di essere legittimi abitanti della “casa comune”.
Se vogliamo avere una manifesta conferma di tutto ciò, possiamo riferirci ad un famoso dibattito svoltosi fra importanti giuristi europei nel 1928, citando brevemente alcuni passaggi della relazione introduttiva di Hans Kelsen: la giurisdizione costituzionale ha tanto più importanza “per una repubblica democratica, della quale le istituzioni di controllo sono una condizione di esistenza”….”Più essa si democratizza, più deve esservi rafforzato il controllo. La giurisdizione costituzionale … è un mezzo di protezione efficace della minoranza contro gli abusi della maggioranza. Il dominio di quest’ultima è sopportabile solo se viene esercitato in modo regolare” ……… “Qualunque minoranza –di classe, nazionale o religiosa- i cui interessi siano in un modo qualunque protetti dalla costituzione ha quindi un interesse eminente alla costituzionalità delle leggi”. Pertanto, “se l’essenza della democrazia risiede non già nell’onnipotenza della maggioranza ma nel costante compromesso tra i gruppi che la maggioranza e la minoranza rappresentano in Parlamento e quindi nella pace sociale, la giustizia costituzionale appare strumento idoneo a realizzare questa idea”.
Quindi, quando noi troviamo gli stessi concetti e perfino alcune espressioni identiche in una importante relazione del 1945 di Egidio Tosato sulla rigidità costituzionale da conseguire nella prossima Assemblea costituente, possiamo tranquillamente prendere atto che i giuristi italiani –lungi da rinchiudersi in visioni provinciali- si sono consapevolmente collegati al grande dibattito sul moderno costituzionalismo liberal-democratico: “Il governo democratico infatti è bensì il governo della maggioranza, non però di una maggioranza onnipotente incontrastata ed incontrastabile, ma di una maggioranza che ha di contro a sé, ineliminabile, una minoranza la quale ha pure i suoi diritti. E il governo della maggioranza è sopportabile solo se i diritti della minoranza vengono rispettati. Tali diritti non si esauriscono in quello negativo di critica e di opposizione, ma comprendono anche positivamente tutti gli interessi costituzionalmente e rigidamente garantiti. Che la costituzione sia rigida, non possa cioè essere modificata se non attraverso un procedimento speciale, dato generalmente dalla esigenza di un numero di voti superiore a quello necessario per la legislazione ordinaria, significa appunto che la maggioranza non può far prevalere ed imporre la sua volontà in ogni caso, ma che certe questioni fondamentali non possono che essere risolte se non con l’accordo almeno di una parte della minoranza. Per questo il regime democratico viene esattamente definito come regime di compromesso e quindi di pace sociale”.

5. Con l’opera difficile dell’Assemblea costituente il nostro paese si è inserito a pieno titolo in questo grande filone, elaborando una Costituzione giustamente ammirata, tanto da costituire negli anni successivi un modello per molti paesi europei che (prima negli anni settanta e poi negli anni novanta del secolo scorso) si sono infine potuti dotare di costituzioni democratiche.
Ho detto opera difficile, perché non era certo scontato che si potesse giungere ad una Costituzione largamente condivisa e davvero significativa: in un paese che era appena uscito da un ventennio di regime autoritario, militarmente sconfitto dopo una guerra dalla parte sbagliata e largamente distrutto, per la prima volta si riuniva un’assemblea rappresentativa dell’intero paese in un contesto di grandissime tensioni e con forze politiche largamente nuove e comunque caratterizzate da forti contrapposizioni ed ideologismi. Ed è evidente che darsi una Costituzione, specie se fortemente impegnativa e rigida, è opera complessa e comunque assai difficile.
Non è certo questa la sede per ripercorrere gli studi analitici fatti sul periodo costituente fino all’approvazione del testo finale nel dicembre 1947 , con la straordinaria maggioranza a suo favore di circa il 90% dei costituenti, malgrado le violente tensioni politiche allora esistenti sia a livello nazionale che internazionale.
In questa sede basta rammentarne gli esiti fondamentali, consistenti nella adozione di una Costituzione che sul piano sostanziale possiamo definire, utilizzando una suggestiva espressione di Aldo Moro del 1948, come “rigidamente democratica ed arditamente sociale” e cioè come una Costituzione che unisce a scelte esplicite di eguaglianza sostanziale e quindi di trasformazione sociale, affidate ad un ricco ed efficace sistema di istituzioni rappresentative a livello nazionale e regionale, la tutela più attenta della autonomia e libertà dei cittadini e delle formazioni sociali, garantiti non solo dalle diverse forme di partecipazione democratica al potere , ma anche da precisi istituti a tutela del rispetto sia della legalità ordinaria che della perdurante vigenza dei principi e valori costituzionali.
Scelte del genere hanno prodotto –analogamente a quanto è avvenuto nella totalità delle moderne Costituzioni democratiche- una carta costituzionale analitica, rigida e garantita, che mentre assicura alle istituzioni rappresentative operanti ai vari livelli amplissimi poteri per la disciplina e la gestione degli interessi collettivi, tutela con grande attenzione la legalità ordinaria e costituzionale. E’, infatti, antichissima preoccupazione quella di riuscire ad applicare senza aree privilegiate le norme e, non a caso, lo Stato di diritto è sorto anche in polemica con Principi che si ritenessero “legibus soluti”. Anche da ciò quindi tutte le disposizioni costituzionali finalizzate a garantire la piena indipendenza della magistratura ordinaria e la limitatezza alle normative di privilegio.
Ma innumerevoli esperienze storiche hanno reso evidente l’ineludibile necessità che la tutela di fondamentali diritti ed interessi individuali e collettivi sia garantita anche tramite la rigidità costituzionale. Solo per riferirsi all’ opinione di un altro autorevole politico, pur anch’esso cresciuto –come De Gasperi- in un assetto di costituzionalismo flessibile, mi sembra molto chiaro nella sua sintesi quanto ha scritto Luigi Sturzo nel 1946: “il popolo pone una specie di limite a sé stesso di non violare il patto che costituì in essere la democrazia. Questo patto è detto costituzione o statuto, e a guardia di questo patto stanno organi speciali che hanno il diritto di annullare le leggi che possono violarlo. E’ vero che lo stesso popolo che fissò la costituzione può farvi cambiamenti o aggiunte, ma se gli emendamenti proposti feriscono lo spirito della costituzione e ledono il principio democratico, allora il popolo deve respingerli …” .
Le scelte sul punto della nostra Costituente sono state in questo senso (lo riconobbe come un dato pacifico Meuccio Ruini nella relazione illustrativa del progetto di Costituzione), con la previsione quindi di un apposito procedimento aggravato per modificare la Costituzione e le leggi costituzionali, mentre il rispetto del dettato costituzionale è stato affidato, oltre che ovviamente alla reattività del corpo sociale (peraltro sempre nel rispetto delle forme e delle procedure previste dalla stessa Costituzione), ad appositi organi di garanzia (in parte al Presidente della Repubblica, nonché alla Corte costituzionale). Va peraltro notato che la rigidità della procedura di revisione costituzionale prevista dall’art. 138 Cost. non rende particolarmente difficile la modificazione o l’integrazione del dettato costituzionale (non a caso, finora sono state ben 34 le leggi costituzionali entrate in vigore dal 1948), anche se certamente modifiche costituzionali che non conseguono la maggioranza dei due terzi dei voti nelle due Camere possono essere agevolmente sottoposte allo speciale referendum popolare di cui allo stesso art. 138 Cost. (come è avvenuto, ad esempio, con la grande riforma costituzionale della seconda parte della Costituzione, approvata dal Parlamento nel 2005, ma respinta dal referendum del 2006).
Non vi è quindi – in punto di diritto e facendo salvi i principi costituzionali supremi di cui alla sent. n.1146 del 1988 - alcuna obiezione che possa essere avanzata contro proposte di modificare la Costituzione secondo la procedura prescritta: semmai occorre ribadire che ovviamente fino all’ipotetica loro adozione e promulgazione, nulla muta nella Costituzione vigente. Mi limito sul punto ad auspicare che le modifiche vengano progettate ed elaborate con adeguata consapevolezza tecnica ed istituzionale di ciò che si intende modificare. Certo, per lo specifico settore della giustizia costituzionale, non bisognerebbe mai dimenticarsi che il Presidente Aldo Sandulli disse che queste particolari norme costituzionali hanno lo scopo fondamentale di “difendere la democrazia da sé stessa”.

6. - Di recente ho avuto occasione di rileggere nei lavori parlamentari che portarono (dopo quasi cinque anni di intense discussioni) ad approvare al termine della prima legislatura repubblicana due leggi (una costituzionale ed una ordinaria) che permisero il funzionamento della Corte costituzionale una interessante dichiarazione di Adone Zoli (in dialettica contro le ultime resistenze di Nitti e di Vittorio Emanuele Orlando a permettere l’entrata in funzione della giustizia costituzionale) che quelle leggi ha infine sottoscritto nel 1953 nella sua qualità di Ministro Guardasigilli: egli faceva notare che la massima novità della nuova Costituzione era costituita dal fatto che ormai al di sopra del Parlamento, del Presidente della Repubblica, del Governo, del Presidente del Consiglio, sta la Costituzione (non certo la Corte costituzionale). Ma se ciò caratterizza la Costituzione repubblicana, occorre garantire il buon funzionamento della Corte costituzionale, chiamata specificamente a garantire il primato della Costituzione, poiché “nella tutela della Costituzione è l’avvenire pacifico del nostro paese”.
Riemerge anche in questo caso l’idea importante che nei grandi Stati democratici contemporanei, che vedono la necessaria convivenza di innumerevoli soggetti individuali e collettivi, dotati inevitabilmente di culture, passioni ed interessi differenziati, nonché la gestione comune delle tante potenti istituzioni che sono necessarie per la difesa e lo sviluppo delle libere e pluraliste società contemporanee, occorre che esistano Costituzioni effettivamente rispettate e condivise, come fulcro fondamentale di identificazione di tutti, al di là del largo spazio lasciato giustamente ai soggetti di volta in volta egemoni nella lotta politica, sociale, culturale.
Voglio dire che anche la nostra lunga storia nazionale dovrebbe aiutarci a capire che è assolutamente prezioso conseguire la garanzia che, al di là delle tante legittime dialettiche contingenti, esiste un tessuto comune di regole e di valori essenziali condivisi: e sia ben chiaro che la fedeltà sostanziale alla Costituzione, che appunto queste regole e valori esprime, spetta a tutti i soggetti istituzionali e sociali, pubblici e privati, appartenenti ad ogni tendenza culturale e politica.
Ma mentre a tutti questi soggetti spetta far vivere concretamente le regole ed i principi costituzionali attraverso l’attività di ogni giorno, alla Corte costituzionale tocca soltanto intervenire nei casi (puntualmente prescritti dalla stessa Costituzione e dalle sue leggi di attuazione) di conflitto o di crisi, in cui viene posto in dubbio il rispetto delle regole costituzionali da parte di alcuni soggetti istituzionali. Ma anche quando viene stimolata ad intervenire, la Corte si guarda bene da invadere il campo proprio della politica o della mera discrezionalità del legislatore (che in genere resta larghissima): ciò che la Corte solo può sanzionare è la lesione di puntuali disposizioni costituzionali. Posso anzi dire che fra coloro che hanno studiato l’attività della Corte costituzionale è molto diffuso il giudizio che essa si è tradizionalmente mossa con grande senso di responsabile prudenza prima di giungere a dichiarare l’illegittimità costituzionale (salvo sempre il diritto di critica su singole decisioni o anche la possibilità di errori).
Nella sua ormai lunga storia la Corte costituzionale (oltre 18.000 decisioni in cinquantacinque anni), ha dato risposta alla diffusa richiesta di giustizia costituzionale anche attraverso decisioni di dichiarazione di illegittimità costituzionale o di fondatezza di conflitti fra i poteri: ma questo è quanto essa deve appunto fare, ove si constati la lesione di puntuali norme costituzionali da parte dei legislatori o dei supremi organi dello Stato, al fine di garantire il primato delle disposizioni costituzionali. Sempre i commentatori della giurisprudenza costituzionale (antica e recente) hanno messo in luce che essa è riuscita anche a svolgere un ruolo di forte stimolo, soprattutto in presenza di fasi di immobilismo dei vari Parlamenti di volta in volta interessati, a metter mano a modifiche legislative necessarie per adeguarsi ai nuovi principi costituzionali: potrebbe pensarsi, ad esempio, a quanto è mutato in conseguenza della giurisprudenza costituzionale in tema di diritto di famiglia, di diritto processuale penale, di diritto penale, di normative di polizia, di diritto amministrativo. E ciò senza pensare al ruolo molto incisivo della giurisprudenza costituzionale in tema di rapporti fra Stato e Regioni, sia prima che dopo la riforma del Titolo V della seconda parte della Costituzione.
Ma ogni volta che la Corte costituzionale accoglie una censura di costituzionalità, essa restaura un diritto o riafferma un valore inserito nel patto costituzionale, ovvero richiama alla doverosa correttezza o legalità costituzionale; in ultima istanza, rende attuale il patto costituzionale che vincola e tutela tutti noi.
Dinanzi ad una sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge, non si può quindi asserire che sarebbe con ciò negata la sovranità popolare rappresentata dall’organo legislativo che quella legge ha voluto od ha comunque mantenuto in vigore, ma occorrerebbe, invece, porsi il problema di come è possibile che un organo rappresentativo non si sia reso conto di mantenere in vita disposizioni contrarie a principi non disponibili o addirittura abbia consapevolmente posto in essere qualcosa di vietato dalla Costituzione e cioè dalla fonte che è alla base della sua stessa legittimazione.
Intendiamoci: la Corte non è esente da errori o fraintendimenti, ma quello che posso assolutamente garantire è che essa opera come un organo del tutto indipendente, tramite procedure strettamente collegiali alle quali partecipano con consapevolezza e piena informazione tutti i suoi giudici. Ed i giudici sono –come ben noto- scelti all’interno di categorie professionali particolarmente qualificate da parte di alcuni degli organi più rappresentativi del nostro sistema democratico (il Presidente della Repubblica; il Parlamento in seduta comune, tramite maggioranze particolarmente qualificate; le massime autorità giurisdizionali) e sono dotati di uno status speciale (a cominciare dalla loro eccezionale durata in carica, pari a nove anni) che è finalizzato proprio ad assicurare la loro assoluta indipendenza. D’altra parte, che le Corti costituzionali debbano essere autonome dal potere politico è un punto assolutamente ovvio, poiché se non lo fossero sarebbero organi semplicemente inutili: un grande giudice costituzionale come Vezio Crisafulli ha scritto che se nelle Corti vi fosse un forte grado di omogeneità politica con gli organi rappresentativi, si passerebbe in realtà da un controllo ad un autocontrollo, parole che si assomigliano ma che esprimono concetti totalmente diversi.
E’ naturale che possano esservi incomprensioni in qualche misura “fisiologiche” fra i responsabili politici e gli organi di giustizia costituzionali, tanto più in fasi di particolari tensioni culturali e politiche: ovviamente non ammissibile è che, invece, si giunga a campagne di disinformazione sull’attività svolta dall’organo di giustizia costituzionale o addirittura a tentativi di denigrazione di singoli giudici o dell’intero organo.
Comunque, la Corte deve continuare a rendere giustizia, certo con totale rispetto dei suoi limiti e con grande senso di responsabilità, ma senza farsi minimamente intimorire. Una Corte che non riuscisse ad eliminare atti o comportamenti incostituzionali anzitutto tradirebbe la sua funzione, rischiando anche la sua sostanziale irrilevanza nel sistema istituzionale, ma si assumerebbe pure una grandissima responsabilità sul piano “educativo” nei riguardi della pubblica opinione, che è già tanto dubbiosa dell’effettiva vigenza del fondamentale principio di legalità, specie in riferimento ai soggetti ed agli organi più forti.

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