Maltrattamento di animali

Maltrattamento di animali (art. 544 ter c.p.).

Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche è punito con la reclusione da tre a diciotto mesi o con la multa da 5.000 a 30.000 euro.
La stessa pena si applica a chiunque somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi.
La pena è aumentata della metà se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte dell'animale.

La fattispecie di maltrattamento di animali è quella tradizionalmente posta a tutela del sentimento umano per questi ultimi. Una simile disposizione, infatti, era già contemplata all’interno del regolamento toscano di polizia del 1849 e veniva a ritrovarsi, più tardi, nel codice penale sardo-italiano del 1859.
Quest’ultimo, infatti, tra le contravvenzioni riguardanti l’ordine pubblico, stabiliva all’art. 685, n. 7: “Cadono in contravvenzione coloro che, in luoghi pubblici, incrudeliscono contro animali domestici”.
Fattispecie analoga era poi riportata, con significativa eliminazione dei riferimenti alla “natura domestica degli animali” e a quella “pubblica del luogo” in cui dovevano avvenire i maltrattamenti, nel codice Zanardelli del 1889. Esso sotto l’inscriptio “Dei maltrattamenti di animali” prevedeva, tra le contravvenzioni concernenti la pubblica moralità, l’art. 491 che stabiliva: “Chiunque incrudelisce verso animali o, senza necessità li maltratta, ovvero li costringe a fatiche manifestamente eccessive, è punito con l’ammenda sino a lire cento.
La timida intensificazione di tutela realizzatasi in materia attraverso la riforma n. 473 del 1993, non pienamente rispondente ad una sensibilità sociale inequivocabilmente cresciuta in argomento, ha portato il legislatore ad intervenire nuovamente in tale materia a distanza di poco più di dieci anni.
L’intervento, attuato in forza della novella n. 189 del 2004, oltre a prevedere alcune importanti e nuove modalità integrative del reato di “maltrattamento”, sulle quali ci si soffermerà più oltre, ha assai significativamente elevato la fattispecie in analisi da ipotesi contravvenzionale punita con la sola pena dell’ammenda ad ipotesi delittuosa sanzionata alternativamente con la reclusione o la multa.
Occorre segnalare per completezza che le condotte di “detenzione illecita” e di “abbandono”, contemplate per la prima volta nel codice Rocco in forza della riforma del 1993, sono tuttora previste all’art. 727 c.p. quali fattispecie contravvenzionali e sono tuttavia oggi punite, per intervento della novella del2004, con pena alternativa.
In merito al bene giuridico tutelato e all’oggetto materiale del delitto di maltrattamento di animali, potranno svolgersi considerazioni del tutto identiche a quelle già poste in essere in relazione ai medesimi elementi circa il delitto di uccisione di animali contemplato all’art. 544-bis c.p, alle quali, pertanto, si rimanda.
Quanto alla condotta, L’art. 544-ter c.p. configura una norma a più fattispecie. Il delitto di “maltrattamento di animali” è infatti perpetrabile attraverso più condotte alternative tra loro e tutte integranti il medesimo reato. Alcune delle modalità esecutive di cui si discute sono state estrapolate, con l’aggiunta di qualche minima modifica, dalla previgente ipotesi contravvenzionale di “maltrattamento di animali” prevista ex art. 727 c.p. ante riforma, mentre altre sono state configurate ex novo dal legislatore del 2004. In particolare, il I comma dell’art. 544-ter c.p. individua tre modalità alternative d’integrazione del reato, di cui solo la prima risulta essere di nuovo conio.
Esse consistono nelle “per crudeltà o senza necessità”, “cagionare una lesione ad un animale”, “sottoporlo a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche”. Il
II comma contempla poi due ulteriori condotte integrative del delitto, inserite ex novo nel codice, e consistenti nel “somministrare agli animali sostanze stupefacenti o vietate” o “nel sottoporli a trattamenti che procurino un danno alla salute degli stessi”.
E’ importante sottolineare come in merito alle condotte tipiche previste al II comma dell’art. 544-bis c.p, il legislatore non abbia ripetuto l’inciso, invece contenuto al I comma, “per crudeltà o senza necessità”.
Alla luce di tale omissione si dovrà ritenere pertanto che, fatta salva ex art. 19-ter dip. coord. e trans. c.p. l’inapplicabilità della fattispecie di cui si tratta ai “casi previsti dalle leggi speciali” in materia di animali, non sia necessaria l’integrazione dei canoni suddetti al fine della configurazione del reato di maltrattamento di animali tramite le modalità da ultimo citate. Si considera, infine, il reato possa realizzarsi sia mediante azione che mediante omissione.
La prima fattispecie integrativa del delitto di maltrattamento di animali, costituita dal “cagionare per crudeltà o senza necessità una lesione ad un animale”, rappresenta una novità rispetto alla preesistente contravvenzione di maltrattamento contemplata all’art. 727 c.p.
Il reato di maltrattamento è in questo caso a forma libera, poiché per l’integrazione dello stesso tramite tale condotta è sufficiente, sotto il profilo oggettivo, che l’evento “lesione dell’animale”, derivi, in forza di un nesso di causalità materiale, dall’azione o dall’omissione del soggetto agente.
La condotta stessa, poi, pare ricalcata su quella delle lesioni personali dolose previste all’art. 582 c.p. Sicché, come è stato opportunamente osservato, se l’art. 544-bis c.p. (uccisione di animali) configura il “pendant animalistico” dell’omicidio contemplato all’art. 575 c.p., il maltrattamento di animali integrabile tramite la condotta qui in esame, configura il “parallelo animalistico” di quello previsto all’art. 582 c.p Occorre tuttavia precisare che, mentre nelle lesioni personali viene fatta esplicita menzione della necessità del verificarsi di “una malattia nel corpo o nella mente” per l’integrarsi del reato, il I comma dell’art. 544 ter c.p. fa cenno unicamente al termine “lesione”.
Ciò nondimeno, anche alla luce del parallelismo da poco evidenziato, si può ritenere che il legislatore abbia fatto riferimento al nomen iuris del reato di lesioni, e che il concetto stesso di “lesione” vada quindi qui interpretato in aderenza alla medesima nozione così come elaborata nell’alveo dell’art. 582 c.p.
La dottrina maggioritaria ritiene in proposito che, all’interno dell’art. 582 c.p., solo in apparenza “lesione” e “malattia” costituiscano due eventi distinti, e che, in realtà, ogni “lesione personale” costituisca necessariamente una “malattia nel corpo o nella mente”; la malattia, in ultima analisi, sarebbe l’unico evento della fattispecie di lesioni, tanto dolose quanto colpose.
Mutatis mutandis, perciò, per l’integrazione della condotta di “lesione di animali” sarà necessaria la produzione nell’animale di una alterazione psicofisica che sia appunto qualificabile, come “malattia nel corpo o nelle mente”.
Non saranno quindi sufficienti per l’integrazione del reato, attraverso le peculiari modalità di cui qui si discute, le semplici percosse.
Laddove invece, in merito al delitto di lesioni personali, si aderisse a quella posizione, minoritaria in dottrina, secondo la quale “la lesione” sarebbe un evento autonomo che caratterizza tanto il reato di “percosse”, quanto quello contemplato all’art. 582 c.p., poi ulteriormente contrassegnato dal successivo insorgere della malattia, si dovrebbe giungere a soluzione opposta. Ovvero, poiché il I comma dell’art. 544-ter c.p. parla di sola “lesione” senza richiedere l’ulteriore estremo della “malattia”, si dovrebbe concludere per l’integrabilità dello stesso anche a mezzo di sole percosse. La soluzione da ultimo citata non pare peraltro da condividersi, anche a fronte del fatto che, così concludendo, le percosse a danno di animali risulterebbero punite con pena edittale più grave di quella contemplata dall’art. 581 c.p. in relazione alle percosse inferte all’uomo.
Esulano pertanto dal perimetro di rilevanza penale tracciato dalla fattispecie qui in esame le percosse non produttive di malattia. Le medesime, tuttavia, potranno comunque assumere rilevanza penale sotto la fattispecie di “sevizie” laddove, per il loro numero, la loro brutalità o la loro violenza, possano definirsi tali.
Il contegno di cui si tratta, incentrato sul solo verbo “cagionare”, pare attribuire rilevanza penale ad ogni lesione, dolosamente inferta, qualificabile come “malattia”, e perciò anche a quella eventualmente prodotta senza cagionare dolore all’animale (si pensi a quella posta in essere su di un animale anestetizzato).
La condotta è perpetrabile anche in forma omissiva salva, ovviamente, in conformità ai dettami dell’art. 40, II comma., c.p., la necessità dell’esistenza in capo al soggetto agente di un obbligo giuridico di impedire l’evento “lesione”. Esempio di caso concreto, in cui si ritiene che il contegno omissivo da ultimo citato sia di fatto integrato, viene fornito da una recente pronuncia della Corte Suprema, secondo cui “Va confermata la condanna per maltrattamento di animali nei confronti del proprietario di tre cani legati con una catena troppo corta a mezzi in disuso, senza protezione ed in ambiente contaminato dalla presenza di rifiuti che provocano lesioni agli arti e su altre parti del corpo, non trovando applicazione nella specie l'esimente dello stato di necessità ex art. 54 c.p., non integrando tale ipotesi la presenza di temporanee menomazioni, tali da impedirgli con facilità i movimenti”.
Infine, dal punto di vista probatorio, l’accertamento dell’insorgenza della “lesione-malattia” nell’animale renderà necessario il ricorso a conoscenze afferenti alla scienza veterinaria e, laddove si tratti di verificare l’avvenuta produzione di una “malattia nella mente” dell’animale - e cioè di un’alterazione funzionale in senso negativo della psiche di questo -, con ogni probabilità, anche all’etologia cognitiva.
La seconda condotta integrativa del delitto di maltrattamento di animali, contemplata al I comma dell’art. 544-ter, consiste nel “sottoporre, per crudeltà o senza necessità, un animale a sevizie”.
Per tale via il legislatore attribuisce rilievo penale a tutti quei contegni invasivi della sfera psicofisica dell’animale che da un lato, per il loro grado d’incidenza negativa su di essa, possano definirsi “sevizie” e tuttavia, dall’altro, non siano produttivi di vere e proprie lesioni nel senso sopra chiarito. La condotta di “sevizie” era prevista come modalità integrativa del reato di maltrattamento d’animali anche sotto la vigenza dell’art. 727 c.p., così come formulato prima della novella del 2004. L’articolo stesso, tuttavia, prevedeva la “sevizia” in alternativa allo “strazio” - oggi non più menzionato dall’art. 544-ter c.p. - e si rifaceva alla vecchia ipotesi di sottoposizione dell’animale a “torture”, contemplata dall’articolo medesimo nella sua formulazione originaria risalente al 1930.
La “sevizia” è stata definita dalla dottrina, già sotto la vigenza dell’art. 727 c.p. ante riforma, come una particolare forma di crudeltà “qualificata dalla ferocia del tormento” e comportante un patimento significativo per la bestia. Non è tuttavia chiaro se per tale “patimento” debba intendersi solo quello che incida sulla sfera fisica dell’animale o, al contrario, anche quello che interessi la sola sfera psichica dello stesso (si pensi, per esempio, a chi costringa un animale ad assistere alla macellazione dei propri simili, o privi una femmina di cane dei propri cuccioli, oppure li uccida davanti a questa, a pochi giorni dal parto). Sotto la vigenza dell’art. 727 c.p., infatti, la dottrina più risalente era stata propensa ad escludere dall’area di rilevanza penale la crudeltà che si risolvesse nella sottoposizione dell’animale a “sofferenze solo psichiche”, e ciò “non perché tutti gli animali non siano suscettivi di sofferenze morali, ma perché l’art. 727 c.p. punisce solo ciò che può più gravemente turbare il sentimento collettivo di pietà verso gli animali, e non quello che può urtare soltanto una sensibilità superiore”.
Tale linea interpretativa, emersa prima della riforma del 1993 e seguita dalla giurisprudenza di legittimità anche dopo la citata modifica, non è tuttavia sempre stata recepita dalla giurisprudenza di merito e viene altresì criticata da alcune voci in dottrina. In occasione quindi della previsione delle “sevizie” come modalità d’integrazione del reato di maltrattamento anche da parte della novella del 2004, si ripropone lo stesso quesito.
Si tratterà in proposito anche di valutare se, in luogo della più volte menzionata evoluzione del sentimento per gli animali nel sentire sociale, quella “sensibilità superiore” cui autorevole dottrina faceva riferimento come suscettiva d’essere offesa anche da condotte incidenti sulla sola sfera psichica dell’animale, possa ritenersi o meno, a oggi, assurta a “sensibilità collettiva”.
Come si anticipava durante la trattazione dell’art. 544-bis c.p., poi, l’uccisione di un animale di per sé necessitata, ma posta in essere con modalità esecutive più invasive e cruente del necessario potrà essere punita a titolo di maltrattamento, plausibilmente sub specie della condotta di “sevizie”. Parte della dottrina ritiene, inoltre, siano incriminabili a titolo di “sevizie” anche i c.d. atti zoofiliaci, sempre che gli stessi siano stati causa di significativo patimento per gli animali ad essi sottoposti. Vi è invece chi reputa che contegni di tal fatta, seppur comunque incriminabili sub specie di maltrattamento e quindi sanzionabili, in ogni caso, con la medesima pena, vadano più correttamente inquadrati quali “comportamenti insopportabili per le caratteristiche etologiche dell’animale”.
In quest’ultimo senso si è recentemente pronunciato il Tribunale di Bolzano, ponendo in essere nel nostro ordinamento la prima sentenza in materia di c.d. zoopornografia.
Secondo tale giurisprudenza di merito, infatti, “La sottoposizione di un animale ad atti sessuali con una donna o con un uomo (c.d. zooerastia) –realizzata nel corso delle riprese di un film zoopornografico – integra il delitto di maltrattamento di animali perché, comportando una forzatura della natura ed una coartazione dell’animale lesiva del suo benessere psico-fisico, è senz’altro riconducibile al concetto di sottoposizione dell’animale a comportamenti insopportabili per le sue caratteristiche etologiche”.
Infine, come già chiarito, assumeranno rilievo alla luce della condotta di cui qui si discute quelle “percosse” che, per il loro numero o per la loro violenza, abbiano importato, pur non risolvendosi in una vera e propria lesione, un rilevante e intenso patimento per l’animale.
L’ultima condotta rilevante alla luce del I comma dell’art. 544-ter c.p. consiste nel “per crudeltà o senza necessità sottoporre un animale a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche”.
Tale contegno veniva represso, con qualche differenza lessicale ma in modo sostanzialmente identico, anche in forza dell’art. 727 c.p., così come riformulato nel 1993.
L’articolo puniva infatti il “sottoporre animali senza necessità a comportamenti e fatiche insopportabili per le loro caratteristiche” e “l’adoperarli senza necessità in lavori insostenibili per la loro natura, valutata secondo le loro caratteristiche anche etologiche”.
La formula del 1993 - considerata ridondante poiché il concetto di “comportamenti insopportabili” pare di per sé costituire un genus sufficientemente ampio da risultare già comprensivo delle species “fatiche insopportabili” e “lavori insostenibili” - è stata quindi ripresa dal legislatore del 2004 e di poco
modificata attraverso la previsione dell’aggettivo “insopportabili” anche in relazione ai “lavori”, nonché tramite dell’inserimento del riferimento alle “caratteristiche etologiche” in relazione a tutte e tre le ipotesi citate. E’ quindi chiaro che “l’insopportabilità dei comportamenti, dei lavori o delle fatiche” andrà valutata in stretta relazione alle “caratteristiche etologiche” dell’animale che a tali contegni verrà sottoposto.
La formulazione dell’art. 727 c.p. del 1993 si riferiva alle caratteristiche “anche etologiche”, con ogni probabilità a causa del fatto che la formulazione originaria dello stesso articolo parlava di “adoperare animali in lavori cui non fossero adatti per malattia o per età”, e sottintendendo che l’inopportunità di tale utilizzazione dovesse, in forza della modifica attuata, valutarsi non solo alla luce dei canoni della malattia e dell’età, ma, appunto, “anche” in relazione alle “caratteristiche etologiche”. E’ scomparso oggi il riferimento alla malattia e all’età e, tuttavia, si propone in dottrina un’interpretazione delle “caratteristiche etologiche” piuttosto ampia che, in base alle indicazioni fornite dalle scienze naturali, tenga conto, da un lato, delle peculiarità comportamentali dell’animale e, dall’altro, anche dell’ età e di eventuali tare o malattie dello stesso.
La condotta di cui qui si tratta verrà integrata, quindi, qualora l’animale venga utilizzato in attività o secondo modalità incompatibili con le sue attitudini comportamentali o con la sua forza – valutate alla luce sia della specie cui appartiene che delle peculiarità del singolo esemplare – e che risultino essere, per ciò stesso, “insopportabili” per il medesimo, sì da offendere il sentimento di umana pietà per questo. Per quanto concerne i singoli contegni qui in esame si potrà pensare, ad esempio, per quanto riguarda i “comportamenti insopportabili” alla condotta di chi con mezzi coattivi impedisca ad una bestiola di fuggire a fronte di un pericolo imminente per la sua vita, o ancora, come si diceva più sopra, ai c.d. atti zoofiliaci; quanto alle “fatiche insopportabili”, alla sottoposizione dell’animale ad attività sfiancanti connesse all’attività agricola, come quelle di trainare o trasportare pesi sproporzionati, di muovere meccanismi, etc.

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